martedì, settembre 29, 2009

Colonie israeliane

Nelle polemiche spesso ci si dimentica di citare le più semplici realtà, eccone una che merita di essere sempre tenuta ben presente quando si parla di rapporti tra palestinesi (ed un giorno, si spera, Palestina) ed Israele.

Seleziona l'immagine per ingrandirla.
Le prime colonie israeliane sono nate subito dopo la guerra dei sei giorni (1967).
Dal 1977, con l'arrivo del partito Likud al potere, il progetto di colonizzazione si è intensificato.
Nel 1993, al momento della firma degli accordi di Oslo tra Israele e l'Organizzazione per la liberazione della Palestina, si contavano 112 mila coloni in Cisgiordania e 153 mila a Gerusalemme Est. Nel 2006 gli ebrei residenti nei territori occupati erano circa 453 mila. Alla fine del 2008 il ministro della difesa Ehud Barak ha autorizzato decine di nuove costruzioni in Cisgiordania, violando gli impegni presi dal governo israeliano.

Da Internazionale n.810, 28 agosto 2009

Ingrandendo un po' l'immagine, e ricordandosi che una colonia israeliana nei territori occupati è una specie di nuovissimo quartiere fortificato protetto dall'esercito israeliano (in pratica una ferita aperta in territorio palestinese), viene da domandarsi quale possibilità vi sia, in futuro, di dividere i due popoli dando a ciascuno un suo spazio.

Escludendo le soluzioni più tragiche (spero, al giorno d'oggi impensabili, come l'eliminazione totale di una delle due parti in causa) ed immaginando che, prima o poi, una soluzione di pace e dignità per tutti vada trovata, mi sembra rimangano solo le seguenti:
  1. Uno stato d'Israele di soli ebrei ed una Palestina "palestinese" libera ed indipendente che comprenda la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Questa opzione richiede che le colonie vengano sfollate e diventino territorio palestinese, ma ci abitano quasi 500.000 persone.
  2. Il nuovo stato Palestinese offre la cittadinanza (compresa di passaporto e diritto di voto) a tutti i residenti nelle colonie, i quali rinunciano alla protezione dell'esercito israeliano per rispondere alle leggi palestinesi. Questa opzione richiede che i coloni (notoriamente ideologizzati) rinuncino ad essere parte di Israele.
  3. Israele ingloba la Cisgiordania offrendo la cittadinanza (compresa di passaporto e diritto di voto) a tutti i cittadini palestinesi che già vi abitano. Questa opzione richiede che Israele rinunci ad essere lo stato degli ebrei per divenire semplicemente lo stato degli israeliani.
Allo stato dei fatti non vedo altre soluzioni e non vedo nessuna di queste in procinto di avverarsi. Quante generazioni dovranno passare prima che Israele -la pare dominante, fino ad ora- decida di affrontare il problema?
~

domenica, settembre 27, 2009

I bambini, i passi della crescita e lo spazzolone del water


E' successo con il Troll, quando ha cominciato a camminare. E' successo con la Principessa, quando camminava da poche settimane. E' successo, ieri, anche con la Tamagotchi, che libera di pestolare per casa, ogni tanto sparisce attratta da chissacosa e, se non la si sente per una decina di minuti, ci si domanda cosa starà tramando.

Insomma, il Troll leggeva un topolino dopo le fatiche dei compiti, la Principessa era al luna park con una famiglia di amici, la moglie spadellava ed io facevo gli esercizi per il ginocchio operato da poco, quando la piccola è apparsa raggiante in sala brandendo uno spazzolone da wc gocciolante e trillando un «Ta, tata» carico di felicità.

Mi spiace non aver avuto la prontezza di riflessi di scattarle una foto, ma d'altronde non ce la ho avuta neppure quest'estate quando, nel bagno dell'appartamento delle vacanze, in piedi in un equilibrio precario prendeva un vestito per volta dalla cesta della biancheria sporca e lo poggiava, con grande soddisfazione, nella tazza del water.
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venerdì, settembre 25, 2009

L'abbondanza

Vista, piaciuta, comprata.



«L'abbondanza divide il villaggio più delle privazioni»
Proverbio africano.

Mai pensato che l'abbondanza potesse presentare un così terribile difetto.
~

martedì, settembre 22, 2009

Ginocchio, ginocchio

Domani, finalmente, mi operano il ginocchio. Sono in ansia perché sarò assente dall'ufficio per un mesetto e devo lasciar dette un sacco di cose e devo distribuire un po' di lavoro finché ci sono. Sono in ansia.
Ce l'ho un pigiama? Devo preparare la trus. Sarà il caso di fare la barba? Sono in ansia.

Leggo da ancaeginocchio.it:

Pazienti giovani o con esigenze sportive trovano nella chirurgia artroscopica ricostruttiva un trattamento specifico in grado di sostituire il legamento danneggiato con un innesto tendineo (prelevato in genere dallo stesso ginocchio, in particolare dal tendine rotuleo o dalla zampa d'oca). Sebbene i dati siano controversi, è ragionevole pensare che il trattamento chirurgico, ripristinando la "normalità" articolare, possa evitare una degenerazione artrosica precoce.
Per quel po' che ho capito la ricostruzione dei legamento crociato anteriore funziona così:
  1. mi addormentano.
  2. tagliano la gamba sotto il ginocchio, per qualche centimetro in direzione della caviglia.
  3. sfilettano una parte di un lungo tendine detto "gracile"
  4. ricuciono
  5. "lavorano" le fibre estratte producendo una specie di treccia di filamenti tendinei
  6. entrano nel ginocchio in artroscopia lì dove dovrebbe passare il legamento e lo infilano dal basso all'alto.
  7. fissano il nuovo legamento alle estremità con alcuni "chiodi" di un cristallo bio-assorbibile (così non devono andare ad aprire per togliere chiodi o viti)
  8. tamponano i buchini
  9. mi svegliano e dopo qualche decina di minuti mi ri-mandano in stanza
  10. tre notti ancora di ricovero
  11. un mese circa di convalescenza. Camminando con due stampelle senza poter, presumibilmente, né piegare normalmente il ginocchio né, dicono, guidare.
  12. se faccio il bravo e seguo pedissequamente il programma di riabilitazione dovrei tornare a correre tra 6 mesi dall'intervento ... per aprile

La settimana prossima vi racconto come va.

A proposito, pedissequamente significa letteralmente "pedes sequor", cioè "io seguo i piedi" (di un altro ovviamente). Cioè, andare avanti non con la propria testa ma seguendo passivamente una tendenza, una persona, ecc. Chissà se si può fare con le stampelle :-)
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lunedì, settembre 21, 2009

Libro: Cattiva maestra televisione

Ho in mano questo libretto, 127 pagine, scritto da uno dei più acuti pensatori del 1900.

Lo scritto di Popper, nella parte centrale del libretto, è di 11 pagine e si intitola "Una patente per fare TV". Scritto con un linguaggio semplice e diretto accende una luce sul rapporto tra quantità e qualità, sulla differenza tra rappresentare la realtà ed il modificarla. Nel suo scritto, Popper cita spesso un articolo di sociologia  intitolato "Ladra di tempo, serva infedele" di John Condry. Per fortuna l'articolo è riportato interamente nelle 20 pagine successive, e merita di essere letto.

Il tutto si legge in una sera e fornisce gli strumenti minimi essenziali a considerare la televisione con il giusto senso critico.

Illuminante.

Si può trovare su IBS, a 9,00€.

P.S. Il testo di Popper è accompagnato da un'introduzione, scritta da Giancarlo Bosetti, che arriva fino a pagina 67 ed è scritta con il classico linguaggio dei professori universitari di materie umanistiche, dice molto ma l'ho saltata a piè pari appena ho incontrato una frase che comincia con «Il pensiero popperiano ...», sigh.
Mi riprometto di tornare a leggerla, prima o poi.
Dopo il contributo di Condry seguono vari appendici, uno dei quali scritto da papa Wojtyla, utili per chi desiderasse approfondire ulteriormente l'argomento secondo diversi punti di vista.

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venerdì, settembre 18, 2009

JFK: Io sono un immigrato


Per parlare del presente, a volte, è necessario parlare del passato. Per affrontare un argomento che continua a destare in me vergogna di essere italiano, mi appoggio su un possente articolo firmato dal più celebre ed innovativo dei presidenti americani.

Nell'articolo -tratto da La nuova frontiera, pamphlet del 1957 pubblicato in Italia da Donzelli- Kennedy traccia la storia degli Stati Uniti d'America come la storia di una nazione popolata di immigrati, per la maggior parte poveri e fuggiaschi, che ha fatto leva proprio sulla straordinaria motivazione e creatività di queste persone in fuga per diventare la più straordinaria economia, potenza militare e bacino intellettuale del 20° secolo.

JOHN FITZGERALD KENNEDY
Io sono un immigrato
da Repubblica — 30 agosto 2009   pagina 35   sezione: ALTRO.

Non resisto alla tentazione e ne riporto ampi stralci con qualche sottolineatura (consiglio di leggere almeno citazione riguardo agli italiani).
« (...) In poco più di 350 anni, si è sviluppata una nazione di quasi 200 milioni di abitanti, popolata per la quasi totalità da individui provenienti da altre nazioni o i cui antenati erano emigrati da altri paesi.
(...)
Per conoscere l'America, dunque, è necessario comprendere questa rivoluzione sociale squisitamente americana. È necessario capire perché più di 42 milioni di persone hanno rinunciato a una vita consolidata per ricominciare da zero in un paese straniero. Dobbiamo capire in che modo essi andarono incontro a questo paese e in che modo questo paese andò incontro a loro e, cosa ancor più importante, dobbiamo capire cosa implica tutto ciò per il nostro presente e per il nostro futuro.
(...)
Non vi è nulla di più straordinario della decisione di emigrare, nulla di più straordinario della ridda di emozioni e pensieri che inducono infine una famiglia a dire addio ai vecchi legami e ai luoghi familiari,a solcare le scure acque dell'oceano per approdare in una terra straniera. Oggi, in un' epoca in cui grazie ai mezzi di comunicazione di massa a un capo del mondo si sa tutto ciò che accade nell'altro, è difficile capire come la povertà o la tirannia possa spingere una persona a lasciare il proprio paese per un altro. Ma secoli fa l'emigrazione era un salto nel buio, era un investimento intellettuale ed emotivo enorme. Le forze che indussero i nostri antenati a quella decisione estrema - lasciare la propria casa e intraprendere un' avventura gravida di incognite, rischi e immense difficoltà- dovevano essere soverchianti.
(...)
Per molti contadini era la prima volta che si allontanavano da casa, che uscivano dalla sicurezza di piccoli villaggi in cui avevano passato tutta la vita. Ora avrebbero dovuto imparare a trattare con persone completamente diverse. Si sarebbero scontrati con problemi a cui non erano avvezzi, avrebbero imparato a comprendere costumi e linguaggi stranieri, si sarebbero industriati per affermarsi in un ambiente oltremodo ostile.
Come prima cosa, dovevano mettere da parte il denaro necessario per il viaggio. Dopodiché salutavano i loro cari e gli amici, consapevoli che con ogni probabilità non li avrebbero mai più rivisti. Quindi cominciava il viaggio che dai villaggi li avrebbe condotti ai porti di imbarco. Alcuni si spostavano a piedi; i più fortunati trasportavano i loro pochi averi su carretti che poi rivendevano prima di imbarcarsi. In certi casi facevano tappa durante il viaggio lavorando nei campi per mangiare. Prima ancora di riuscire a raggiungere i porti erano esposti alle malattie, agli incidenti, alle intemperie e alla neve, e attaccati anche dai banditi.
Una volta giunti al porto, spesso dovevano attendere giorni, settimane, talvolta mesi prima di imbarcarsi, contrattando con i capitani e gli agenti il costo della traversata. Nell'attesa, vivevano ammassati in stamberghe a poco prezzo a ridosso dei moli, dormendo sulla paglia in stanzette buie, a volte in quaranta in uno spazio di tre metri per quattro.
Fino alla metà del Diciannovesimo secolo gli immigranti viaggiavano a bordo di navi a vela. In media la traversata da Liverpool a New York durava quaranta giorni, ma all'epoca qualsiasi previsione era azzardata, poiché la nave era esposta ai venti e alle maree, le tecniche di navigazione primitive, l'equipaggio inesperto e la rotta soggetta ai capricci del capitano.
Per le imbarcazioni di allora, non così massicce, trecento tonnellate costituivano una buona stazza, e tutte erano stipate di passeggeri, dai quattrocento ai mille, in ogni angolo. Il mondo degli immigranti a bordo della nave si riduceva alla stiva, lo spazio ristretto sottostante il ponte, generalmente lungo trenta metri e largo sette. Su molte navi le persone alte più di un metro e settanta non potevano neanche stare in piedi. Lì vivevano giorno e notte, ricevevano la razione quotidiana di acqua con l'aggiunta di aceto e tentavano di sopravvivere con le provviste che si erano portate per il viaggio. Quando i viveri finivano, si ritrovavano spesso alla mercé dei metodi usurai dei capitani.
Se ne stavano assiepati in cuccette anguste e dure, dove quando venivano aperti i boccaporti si gelava e si soffocava dal caldo quando erano chiusi. L'unica fonte di luce proveniva da una fioca lanterna pencolante. Il giorno e la notte erano indistinguibili, ma i passeggeri imparavano a riconoscere gli infidi venti e i flutti, lo zampettio dei topi e il tonfo dei cadaveri gettati in mare. Le malattie -colera, febbre gialla, vaiolo e dissenteria- facevano strage: uno su dieci non riusciva a sopravvivere alla traversata. Nei paesi che avevano lasciato, gli immigrati in genere avevano un lavoro stabile. Portavano avanti l'attività artigianale o commerciale dei loro padri, coltivavano la terra di famiglia o il piccolo appezzamento ereditato in seguito alla spartizione con i fratelli. (...)
Una volta rotto con il passato, a parte i legami affettivi e l'eredità culturale, dovevano fare affidamento esclusivamente sulle proprie capacità. Erano obbligati a volgere lo sguardo al futuro, non al passato. (...) E se non fossero riusciti a realizzare il sogno per se stessi, potevano sempre serbarlo per i loro figli. È stata questa l'origine dell'inventiva e dell'ingegno americani, delle tante e nuove imprese e della capacità di raggiungere il tenore di vita più elevato del mondo. (...)
Sul finire del Diciannovesimo secolo l'emigrazione verso l'America subì un cambiamento notevole. Cominciarono infatti ad arrivare, in gran numero, italiani, russi, polacchi, cechi, ungheresi, rumeni, bulgari, austriaci e greci, creando nuovi problemi e dando origine a nuove tensioni. Per loro la barriera linguistica era ancor più insormontabile di quanto non fosse stato per i gruppi che li avevano preceduti, cosicché lo scarto tra il mondo che si erano lasciati alle spalle e quello in cui erano approdati si approfondì.
Si trattava per la gran parte di gente di campagna, costretta però all'arrivo in America a stabilirsi nella maggioranza dei casi nelle città. Già nel 1910 in molte città esistevano delle "Little Italy" o "Little Poland" dai confini ben definiti. Stando al censimento del 1960, abitavano più persone di origini o di genitori italiani a New York che non a Roma.
La storia delle città dimostra che quando vi è sovraffollamento, quando la gente è povera e le condizioni di vita sono pessime, le tensioni si inaspriscono. È un sistema che si autoalimenta: la povertà e la delinquenza all'interno di un gruppo generano paura e ostilità negli altri; ciò, a sua volta, impedisce che il primo gruppo venga accettato e ne ostacola il progresso, protraendone così la condizione di arretratezza. Fu in questa penosa situazione che si ritrovarono molti immigrati provenienti dall'Europa meridionale e orientale, così com'era accaduto ad alcuni gruppi delle prime ondate migratorie.

Un giornale di New York riservò ai nuovi arrivati italiani parole impietose: «Le cateratte sono aperte. Le sbarre abbassate. Le porte sono incustodite. La diga è stata spazzata via. La fogna è sturata (...). La feccia dell'immigrazione si sta riversando sulle nostre coste. Dai serbatoi di melma del Continente la marmaglia di terza classe viene travasata nel nostro paese».
(...)
Le leggi sull'immigrazione dovrebbero essere generose, dovrebbero essere eque, dovrebbero essere flessibili. Con leggi siffatte potremo guardare al mondo, e al nostro passato, con le mani pulite e la coscienza tranquilla. Una tale politica non sarebbe che una conferma dei nostri antichi principi. Esprimerebbe la nostra adesione alle parole di George Washington: «Il grembo dell'America è pronto ad accogliere non solo lo straniero ricco e rispettabile, ma anche gli oppressi e i perseguitati di ogni nazione e religione; a costoro dovremmo garantire la partecipazione ai nostri diritti e privilegi, se con la loro moralità e condotta decorosa si mostrano degni di goderne».

Strappati alla loro vecchia vita, (...) Sbarcavano nel nuovo paese stremati dalla mancanza di riposo, dalla cattiva alimentazione, dalla reclusione, gravati dalla fatica di adeguarsi alle nuove condizioni di vita. Ma non potevano fermarsi per recuperare le forze. Non avevano scorte di cibo né denaro, quindi erano costretti a proseguire il cammino finché non trovavano un lavoro.
(...) Probabilmente le motivazioni per venire in America erano tante quante le persone che arrivarono qui: si trattava di una decisione del tutto personale. Tuttavia si può dire che tre grandi spinte -persecuzione religiosa, oppressione politica e difficoltà economiche- costituirono le ragioni principali delle migrazioni di massa nel nostro paese. Questi uomini rispondevano, a modo loro, alla promessa sancita dalla Dichiarazione di indipendenza di garantire il diritto «alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità»

Traduzione di Marianna Matullo © Donzelli Editore 2009
Possibile che noi non si possa mai imparare dalle esperienze degli altri?

Per approfondire la storia degli italiani in America, ho trovato un lunghissimo articolo Italian Americans (in inglese) da cui ho preso la foto della famiglia italiana ad Ellis Island.
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mercoledì, settembre 16, 2009

Semplici conoscenti

Ieri Roberto mi ha regalato un ricordo, una vignetta delle Sturmtruppen di Bonvi in cui, nel buio della notte, la sentinella chiedeva:
  • «altolà, chi va là, miken o nemiken?»
ed una voce fuori campo:
  • «semplici conoscenti»
Semplice e disarmate credo sia una delle migliori metafore della "terza via" cioè di quanto imbarazzo possa generare una risposta terza rispetto ad una domanda dicotomica.
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lunedì, settembre 14, 2009

Mele caramellate

Mele caramellate
Alla Notte di Fiaba di Riva del Garda (TN), quest'anno dedicata ad Hansel e Gretel, sono rimasto colpito da questi bellissimi dolci che sembrano usciti da racconti di sagre ottocentesche.

Ho trovato la ricetta che riporto qui di seguito pur ammettendo di non averla provata.

Ingredienti
  • 6 mele rosse
  • 200 gr di zucchero
  • 100 gr di miele
  • 1 fialetta di colorante alimentare rosso (colorante? sigh)
  • 3 cucchiaini di cannella in polvere
  • 2 cucchiaini di acqua
  • 3 chiodi di garofano
  • 1 bustina di vanillina
  • stecchi per spiedini (uno per ogni mela)
Preparate per prima cosa le mele: lavatele, asciugatele per bene e togliete il picciolo quindi infilzate ogni mela con uno stecco di legno per spiedini.
A questo punto mettete in un tegame 100 ml di acqua tiepida, lo zucchero, il miele, ed il resto degli ingredienti e fate caramellare il tutto.
Fate sbollire il tutto per 4 minuti e, mentre lo zucchero è ancora caldo e liquido, immergete le mele ad una ad una ricoprendole di uno strato sottile di caramello.
Preparate quindi un vassoio con la carta da forno sul quale metterete ad asciugare le vostre mele stregate.
Servite le mele fredde per non rischiare di bruciarvi col caramello.
Attenzione,quando immergete le mele nel caramello fate attenzione a non fare uno strato troppo spesso altrimenti una volta solidificato risulterà troppo gommoso.
Inoltre, dicono, nel caso il caramello si dovesse raffreddare e quindi solidificare basterà metterlo nuovamente sul fuoco per qualche secondo per farlo tornare liquido.
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venerdì, settembre 11, 2009

Vita in città, finalmente


Mercoledì ore 18:30 ora di tornare a casa. E' una giornata tiepida e leggermente annuvolata. Inforco la bicicletta e mi accingo ad attraversare la città.

Di fronte al municipio, alla macchina che distribuisce il latte crudo ci sono due giovani signore che chiacchierano mentre aspettano il loro turno, tre bambini tra i due ed i cinque anni giocano e si spintonano. Un ragazzo riempie tre bottiglie di latte e due ragazzi stranieri (forse egiziani) discutono dello yogurt. Scampanello per avvertire i bambini e passo velocemente.

Percorro un corto viale pedonale che costeggia una associazione sportiva. Nei campi sportivi molti ragazzi si allenano abbigliati con pantaloncini neri e casacche fluorescenti arancioni e gialle. Alcuni genitori seduti sulle panchine osservare silenziosamente le performance dei giovani calciatori. Alcuni, a piccoli crocchi, commentano con fare saccente.

Ad una mamma scappa il bimbetto in bici e questo sembra faccia di tutto per tagliarmi la strada, pur senza guardarmi sembra seguire la mia esatta traiettoria. Freno, scampanello e aspetto che la ragazza recuperi il pargoletto. Ringrazio, sorrido e riparto.

Un anziano signore pedala con immenso sforzo, come se dovesse attraversare una chiesa in ginocchio, su una vecchia bicicletta grigia.

Dinnanzi alla piscina comunale tutte le panchine sono occupate da persone di varia età che sembra aspettino qualcuno. Nonostante non sia affatto caldo una bambina bionda si bagna i piedi nella fontana antistante sollevando altezzosamente le gonne con due dita.

Schivo un gruppo di quattro ragazzi tra i 13 ed i 14 anni che pedalano pigramente seduti su biciclette acrobatiche che probabilmente non sanno utilizzare. Con la coda dell'occhio ne osservo due che sembrano incredibilmente nerd, come solo i quattordicenni sanno essere, brufolosi e spettinati. Chissà con quanti ormoni stanno combattendo.

Svolto a desta, sono in strada. Allungo il cambio e con poche possenti pedalate mi porto fino alla successiva ciclopedonale che imbocco con una gran frenata. Accidenti, perché i freni fischiano così?

Ci vogliono due possenti scampanellate, quattro scusi, cinque grazie e sei buonasera per attraversare un gruppo di signore anziane armate ciascuna della propria badante moldava, ucraina o rumena.

Al successivo semaforo mi trovo con tre ciclisti a contendere lo spazio di sosta accanto al marciapiedi sulla destra, in modo da appoggiare il piede senza sollevarmi dal sellino.

... non era mai capitato prima!

Non era mai capitato prima ... ed, in effetti, 10 anni fa siamo approdati qui per fuggire dalla città e Segrate era poco più di un dormitorio. Nessuno a piedi ed ancor meno in bicicletta. Un deserto ad alta densità abitativa.

Sarà che sono un trentino testone ma questo vuoto così comune nella grande Milano -tolta pizza Duomo, Brera e Navigli- e hinterland mi è sempre parso strano e anomalo.

Le persone stavano in casa ed uscivano in macchina, percorrendo il tratto di strada fino al lavoro o l'ipermercato, chiusi in scatole di metallo su ruote. Poi risalivano nella stessa e si spostavano fino al successivo luogo chiuso (chiesa, scuola, piscina o bar) senza mai incontrarsi. Così capitava che non ci si conosceva tra vicini di pianerottolo, di condominio e men che meno di quartiere. Sempre tesi, incazzati, in coda.

Tantovale restare a lavorare qualche ora di più, avranno ragionato in molti, che sono ore che tolgo alla TV o all'ipermercato e, magari, guadagno qualche altro soldino che serve per fare il vero milanese ed andare in giro con l'immancabile anda:
Lavoro, guadagno.
Pago, pretendo.

Non so se siano i copiosi interventi urbanistici, che oltre ad aumentare la popolazione hanno costruito parchi e piste ciclabili che prima non c'erano.
Non so se sia la crisi economia che ha fatto desistere tante mamme dal lavoro ed ha creato una mancanza di prospettive di carriera ai mariti.
Non so se sia un allentamento della paura -di terroristi musulmani o violentatori rumeni- che attenagliava il cuore di chiunque provasse a mettere il naso fuori casa senza le lamiere dell'automobile, o una combinazione delle tre cose, ma ... finalmente sembra di vivere in un luogo abitato ... Evviva!
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mercoledì, settembre 09, 2009

gabbie e lucchetti

Tombino rosso

Qualche giorno fa, osservando un tombino, mi sono ricordato di questa battuta:
«
- Cosa ha fatto ieri?
- Sono andato allo zoo.
- A vedere gli animali?
- No, a vedere le gabbie! Io vado pazzo per le gabbie, sono un grande appassionato di gabbie e lucchetti. A casa ho una collezione di Yale e Cisa del ‘64. Anzi, mi danno fastidio gli animali perché si muovono e mi distraggono dall’acciaio.
»
Ale & Franz
Beh, è più o meno quello che, animati dalle nostre ansie, stiamo facendo con le nostre case, no?
~

Mi sento fortunato